Complessità e Contraddizione negli scenari del Design contemporaneo

Giuseppe Marinelli De Marco, ISIA Roma, giuseppe.marinellidemarco@edu.isiaroma.it

Si conclude il primo quarto di secolo di questo millennio

Cento anni fa, durante l’allora primo quarto di secolo, sotto l’onda della seconda rivoluzione industriale è successo di tutto, nelle arti, nelle scienze, nell’economia e nella politica; da Freud a Saussure, da Einstein a Picasso, da Marinetti a Stravinsky, da Joyce a Duchamp, da Le Corbusier alla nascita del Bauhaus.

Oggi in piena terza – o quarta, dipende – rivoluzione industriale informatica, digitale, in questa portentosa era Internet che ha già cambiato le nostre vite, fatta di Big Data e di Intelligenza Artificiale, un’era di prodigi in cui le macchine si guidano da sole e gli oggetti si parlano fra di loro, non si notano particolari segnali di una qualche effervescenza culturale alla scala di quanto sta accadendo. Anzi, direi l’opposto. E che l’emergere dominante della visione del business come stigma sociale, o meglio come unico stigma sociale, ha ormai consolidato una ulteriore mentalità che di fatto annichilisce alcuni aspetti chiave dei processi ideativi creativi e produttivi.

Il risultato è che terrapiattismo e tecno-business stanno coprendo o tentando di coprire tutto il simbolico di cui si nutre una comunità. Questo a parer mio genera una visione deformata della società contemporanea schiacciata fra Caoslandia e febbre da business. Il design, coinvolto in pieno, tenta di districarsi in questo inedito, frenetico, potentissimo flipper. Vediamo come.

Segnalo un interrogativo non banale: come è possibile che ieri, a fronte della seconda Rivoluzione Industriale, l’umanità abbia assistito ad una specie di rinascimento totale fra arte e scienza, mentre oggi, a fronte della terza così copiosa di innovazioni, possiamo parlare solo di un inquietante silenzio della cultura contemporanea, fatta di balbettii regressivi e ripetitivi, in cui tutto quello che ci ha fatto grandi ieri oggi è nel migliore dei casi strumento di un marketing disorientato e affamato.

Sia chiaro, non è il business, fatto strutturale per qualunque azienda, a stare sotto il microscopio. E anche un sano marketing, che poi è un componente del Sistema Design, ha il suo ruolo in qualunque economia. Quello che preoccupa è una nuova religione che si va diffondendo, in cui la fusione fra scienza, tecnica e business – per intenderci le famose “tecnoscienze”, quelle che hanno superato la fase dell’essere “scienza applicata” per essere ormai “embedded” ossia scienza incorporata “nella tecnica” e tutte e due “incorporate nel business” – sta occupando tutto il sistema valoriale sociale a disposizione di una comunità. Così tutto ciò che si frappone come intermediario fra noi e il successo finanziario è un ostacolo noioso portato generalmente – qui la prima contraddizione – proprio dalla cultura, dal design e dagli intellettuali.

In Rethinking Design Alain Findeli, full professor all’Università di Montreal, School of Industrial Design, sostiene: “Non v’è alcun motivo per cui le discipline del design debbano sfuggire all’influenza di questo quadro generale. Infatti, tutte le derive cui si assiste oggi nel design possono essere attribuite a uno o tutti questi tre pilastri centrali: il già citato ‘effetto dell’ingegneria di prodotto e di marketing sul design’, vale a dire, il determinismo della ‘ragion strumentale’, e il ruolo centrale del ‘fattore economico’ come quasi esclusivo criterio di valutazione; una antropologia filosofica estremamente stretta” (Findeli, 2001).

Viviamo un’era piena di complessità e di contraddizioni che genera un’atmosfera esistenziale piuttosto ubiqua, poiché da un lato abbiamo una narrazione che esalta il design e il Made in Italy, che racconta della nostra eccellente capacità manifatturiera fatta di arte artigianato e industria, ma al tempo stesso la vera prassi dominante su scala mondiale prescrive di procedere a gran velocità verso tutto quanto potenzi il sistema dei Big data e della predittività, generando una controversa tendenza demotivante proprio nel design stesso, che essendo una disciplina certamente tecnica ma in realtà profondamente intellettuale e pedagogica, chiede sempre tempo, investimenti, sperimentazione e verifica. Insomma, da un lato una narrazione ricorrente focalizza nel design la carta vincente per la soluzione delle sfide cruciali che abbiamo davanti, dall’altro invece la realtà profonda degli investimenti concreti e delle strutture operative mondiali ci dice che il business è inebriante, mentre la cultura, l’arte ecc. sono la solita lagna! Servono sì, ma nei musei.

Colonizzazione digitale: il Design fra Storia e Geografia

Una seconda riflessione che lega complessità a contraddizione va ricercata nel tentativo in corso di delegittimazione del nostro apparato percettivo-sensoriale confrontato a quello algoritmico-digitale. Qui il processo di colonizzazione funziona in modo sottile. Da un lato aumenta esponenzialmente la capacità conoscitiva di tipo metrico modulare nel rapporto con lo spazio visivo, costruendo continui super-frame scientificamente appropriati ai contesti, che generano una realtà “aumentata”: quindi la nostra percezione si arricchisce di una miriade di dati in più, conosciamo l’ambiente e le sue caratteristiche molto velocemente e grazie alla rete siamo “dovunque”, dunque vinciamo in Geografia. A fronte di questo, si riscontra però una forte retrocessione dell’apparato sensoriale in favore di quello numerico-informatico. Per capirci meglio: Steve Mann, il padre del wearable computing, vive da oltre 30 anni con una attrezzatura di realtà aumentata che lo mette in connessione con una rete selezionata di follower, che a sua volta vive e sente in tempo reale le sue stesse sensazioni e percezioni della realtà. Realtà che lui stesso dice essere “aumentate” non per via ottico-visiva, ma computazionale. Cioè i follower non vedono quello che sta vedendo lui, ma quello che la macchina descrive e “aumenta” in senso numerico, nello stesso istante. Pur considerando l’utilità di ciò nelle catastrofi idrogeologiche, nei terremoti o nella chirurgia, non è così chiaro, a livello epistemologico, “che cosa” entrambi stiano vedendo! Perciò “perdiamo in Storia”. E mi viene da pensare che questa egemonia culturale della tecnica che per autoproporsi si fa percepire (abusivamente) anche come portatrice del “simbolico” di una comunità, sia una delle cause dell’impoverimento del dato creativo delle attuali generazioni, poiché i nostri sensi sono il canale (in realtà l’unico) più potente che esista di acquisizione di dati, ma se la nostra acquisizione attraverso i sensi non può competere con la potenza di calcolo della Realtà Aumentata, di contro genera dati molto più complessi e interessanti, poiché noi li assumiamo e li filtriamo sia attraverso il mondo della memoria che attraverso la nostra grammatica psichica. Come la Teoria del Campo ha dimostrato, quindi, il nostro apparato sensoriale è metricamente più limitato di una macchina computazionale, ma sensorialmente è infinitamente più profondo ed evoluto, perché noi non accumuliamo miriadi di oggetti lineari frutto di misurazione e catalogazione ma produciamo “dati della coscienza”. Noi non sentiamo per catalogare le sensazioni ma sentiamo per trasmettere i dati alla coscienza e generare conoscenza e/o un comportamento, quindi i dati della nostra visione grazie alla complessità del linguaggio diventano racconto e spessore narrativo, come Henry Bergson ci ha dimostrato in tutta la sua opera. La controprova sta nel fatto che dopo il contributo Bergsoniano, parliamo di Durata del Tempo, a differenza della IA che parla di Estensione del Tempo, o di Percezione Reversibile, poiché misurata scientificamente e come tale riproducibile a fronte della Sensorialità Irreversibile quale è in realtà la nostra, poiché assolutamente qualitativa, irriproducibile e univoca e per certi versi già meta-narrativa. Se il design dovrà vivere solo di “Esprit de géométrie”, di accumulazione di pura esattezza e precisione tecnologica, che fine farà il suo “Esprit de finesse” che è il vero fattore che fa la differenza?

Forme e contenuti

Carlo Mongardini, professore di Scienze politiche e di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma, autore tra i vari di molti interessanti testi sulle Trasformazioni del Capitalismo e le rispettive mutazioni antropologiche e politiche che tale fenomeno comporta, afferma: “Siamo così arrivati ai nostri giorni, all’epoca del nostro capitalismo che è soprattutto finanziario (…) la funzione del denaro nella sua fluidità, mobilità, anonimità, il suo essere qui veramente l’equivalente universale diventa vitale per il nuovo capitalismo, il pericolo che però incombe su di esso è che il denaro si distacchi sempre di più dalla vita reale delle imprese e che il suo predominio diventi sempre più astratto e perciò sempre più opprimente (Mongardini, 2007).

Il capitalismo storico, eroico e pionieristico è stato caratterizzato da molti fattori irripetibili che hanno permesso di far emergere un gruppo di nuove scienze che hanno fatto la differenza, le cosiddette scienze umane: antropologia, sociologia, psicologia, psicanalisi, semiologia, linguistica strutturale, la teoria del campo, la gestalt, la topologia. In breve, tutto ciò che riguarda la relazione dell’umano con lo Spazio, il Tempo, con il suo prossimo e con sé stesso, oltre ad un’anatomia del linguaggio progressivamente sempre più articolato e complesso, messo sempre più a nudo dalla psicanalisi. Il Novecento oltretutto, come spiega dettagliatamente il compianto Manfredo Tafuri, ha prodotto i due grandi filoni del linguaggio moderno e contemporaneo, sia quello astratto in tutte le sue declinazioni con le avanguardie Sperimentali Astratte, che il suo essere enigma nichilista con le Avanguardie Radicali come il Dadaismo e il Surrealismo, liberando l’espressività imprigionata in un millenario naturalismo ed ha generato la quasi totalità delle prassi creative ancora oggi in vigore in tutti i processi progettuali. Nell’Ottocento suggestioni e risonanze con la scienza fisica hanno stimolato la nascita dello spirito pittorico impressionista e oggi invece ci si chiede che tipo di risonanza e di stimolazione possiamo avere se le scienze in testa all’agenda mondiale sono occupate solo a far fluire il mercato finanziario al massimo della velocità, indipendentemente dall’economia reale. Chi si potrebbe ispirare a una tale visione della scienza stessa?

La trasformazione del Capitalismo

Secondo molti economisti e sociologi un’importante chiave di comprensione sta proprio nella lettura della trasformazione ultima del capitalismo arrivato alla fine di un percorso estremamente complesso partito dalla Firenze dei Medici e dalla Amsterdam dei Vermeer, in cui esso stesso appare finalmente sotto la forma più pura e ultima del suo scopo: l’economia, l’economia e basta, di cui la finanza rappresenta l’anima più profonda, la sua quintessenza. Il che fa capire molto bene come le cose andranno nel prossimo futuro.

“Il tardo capitalismo ha rotto i ponti con la morale civile, con la creatività, e si isterilisce nell’economicismo nella burocrazia e nella formazione di potenti aggregazioni oligarchiche”. Alain Touraine parla in modo diretto di “una forma estrema di capitalismo che segna la separazione completa dell’economia dalle altre istituzioni in particolare sociali e politiche che non possono più controllarla” (Mongardini, 2007).

L’economista Luciano Gallino ha dedicato pagine illuminanti al riguardo, introducendo quello che personalmente trovo un’importante suggestione concettuale, e cioè la categoria della Estrazione di Valore rispetto alla Produzione di Valore, differenziazione estremamente pertinente nella situazione attuale: “L’estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un sistema operativo più efficiente del suo predecessore, o si piantano alberi. Per contro si estrae valore quando si provoca un aumento del prezzo delle case manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo, si impone un prezzo artificiosamente alto alla nuova medicina, si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario… o si distrugge un bosco per farne un parcheggio” (Gallino, 2011).

Cerchiamo di capire meglio alcuni processi così importanti per il punto di vista progettuale. Una volta imploso comprensibilmente il sistema comunista, il Capitalismo ha pensato che rompere il vincolo keinesiano che lo teneva legato alla società, alla comunità con i suoi ritmi, i suoi sogni, i suoi dubbi, le sue aspettative, fosse a costo zero. E invece oggi il pianeta ci sta presentando da un lato una bolletta energetica piuttosto salata, con catastrofi idrogeologiche sistemiche e la tropicalizzazione del clima, e dall’altro un ulteriore conto durissimo da digerire grazie a una lista della spesa fatta di sanità, formazione, salute, casa, sicurezza e occupazione, altrettanto onerosa, che contiene molti paradossi, uno per tutti quello della crisi alimentare.

Come è noto, circa un miliardo di persone ha enormi problemi ad alimentarsi ed è sottonutrita, con gravissime malattie, mentre ogni anno viene sprecata o gettata al macero la stessa quantità di cibo che sfamerebbe quel miliardo di persone. Fra cibo, acqua, sanità, energia, lavoro, povertà e disoccupazione, specie intellettuale, nei prossimi decenni dovranno essere affrontati e risolti problemi di enorme portata. Non sorprende quindi che il grande capitale, i grandi fondi di investimento, puntino tutto sulla necessità, invece di ritrovare e recuperare più certezze possibile. E solo i Big Data con la IA sono in grado di aiutarlo.

Dal sistema degli oggetti alle reti

Del resto il passaggio da una società moderna a postmoderna è possibile solo attraverso il passaggio da un’economia di piano, che saldi il duro fordismo a uno Stato però di tipo keynesiano, che comunque aveva un approccio al welfare e alla tutela del lavoro, verso un’ economia deregolata come molti economisti, sociologi ed esperti dei fenomeni contemporanei ci hanno dimostrato: vedi Stieglitz, Rifkin, Touraine, Ziegler, Harvey, Capra, Bauman, Baudrillard, De Kerckhove; l’economia della cosiddetta Accumulazione Flessibile. Siamo passati da una società di massa oramai obsoleta con il suo “Sistema degli oggetti” ad una “società in rete”. Ora se sostituiamo la materialità del consumismo con le sue infinite merci, con l’immaterialità delle infinite informazioni della società ICT, notiamo che il modello di diffusione benché sia profondamente diverso nel suo oggetto, da materiale a intangibile, è assolutamente identico nel processo, in quanto anch’esso totalmente industrializzato, continuo e bulimico in entrambi i casi, solo che invece di trattare materia tratta immaterialità e invece di parlare da uno a molti, è interattivo di seconda generazione e quindi parla da tutti a tutti, senza che questo diventi una crescita culturale. Nessun pregiudizio verso la nuova realtà delle tecnologie “embedded”, ma è evidente come queste ultime non siano assolutamente in grado di fornire né mappe cognitive né mappe emotive degne di tale nome alla comunità, ma solo mappe incomplete e profondamente carenti, lasciando l’umano disorientato e solo, facendogli credere che è possibile costruirsi una identità basandosi solo sul fattore economico, anzi sull’idea di accumulazione in quanto tale.

Un’ipotesi di lavoro

Nel frattempo “il Design”, e interpreto questo tutto sommato come segno di vitalità, è diventato “Molti Design” in virtù di un’interessante diaspora epistemologica, rapidamente diventata metodologica e quindi esistenziale, su cui sarà bene indagare meglio, che potrebbe – e a mio avviso dovrebbe – generare una specie di terremoto positivo a livello didattico-formativo e cambiare un po’ il volto delle facoltà di design.

Il Design, come sappiamo, evolve alla stessa velocità del sociale, e alla frammentazione delle società moderne sta replicando con una sua propria frammentazione dando seguito anch’esso a un fenomeno parallelo per cui oggi è diventato un interlocutore molteplice per le molte sfaccettature sociali che la globalizzazione ha lasciato sul terreno.

La divulgazione che si crea attorno al design come fenomeno socioculturale perciò sottolinea il salto di scala che lo porta ad occuparsi, anche in profondità, di molte cose sino a ieri lontane dalla sua missione tradizionale, ma d’altra parte il design non è una entità che vive della tradizione bensì dell’innovazione, cosa che magari ne fa una figura ansiosa ma certamente non passatista. Vediamo come: 1) esiste dunque oggi un design che studia risposte a scenari molto complessi, che affronta l’intreccio fra la rivoluzione del 4.0 e le società liquide, e che per questo può creare valore in molti modi. L’ISIA di Roma in tempi non sospetti, venti anni fa, lo ha chiamato “Design dei Sistemi”, una definizione che allora sembrava aderente al 100% alla sfida didattica cui eravamo chiamati, affidandogli un ruolo magari a volte un po’ troppo trionfalistico, ma certamente espressione di una prospettiva formativa molto avanzata che allora, parliamo degli inizi Duemila, al contrario degli ISIA, nei vari Bienni universitari si era inclini piuttosto ad una merceologia molto articolata.

La didattica del Design dei Sistemi deve però fare molta attenzione a non orbitare troppo vicino ad una nuova ingegneria sociologica che, pur ottimamente comunicata dai successi della Data Visualisation, spesso e volentieri si scopre prigioniera proprio di quel meccanismo iper-metodologico e iper-razionalista da cui voleva liberarsi, cito qui nuovamente Alain Findeli, che molto acutamente ci dice che in sistemi complessi il progettista è parte del problema e non sempre sta nella zona delle soluzioni, come ci piacerebbe che fosse, e come sostiene da sempre il grande Edgar Morin. Inutile credere di stare al di là della linea d’ombra dei problemi; il progettista oggi vive al di qua, dentro il groviglio, e non può più chiamarsi fuori. Non è più un osservatore terzo, ma un attore lui stesso di quella rappresentazione e senza volere produce la sua quota di caos. Rimane il fatto che, ad esempio, in ISIA di Roma sono state fatte molto tempo fa delle introspezioni, sia sul cambiamento che sulla diversità, estremamente interessanti, che hanno dato vita ad un processo didattico lungimirante che finalmente sembrava ridimensionare il mondo del “prodotto” come feticcio mentalmente bloccante per dedicarsi al nuovo, il quale piuttosto che di cose parlava della relazione fra cose, e piuttosto che dei segni della funzione di stampo quasi metafisico parlava della funzione dei segni, come suggeriva Baudrillard già negli anni ‘80, attraverso nuovi e complessissimi emergenti “Design degli Scenari”.

Il design e i sistemi

È però fondamentale che anche il design dei sistemi si evolva evitando il rischio di trasformarsi in una nuova parola-feticcio, e da un processo aperto e altamente sperimentale quale nacque allora, cristallizzarsi in una parola da “super-poteri”, sufficiente come l’etichetta di un vino a garantire il contenuto. Cosa che è sempre una scappatoia allettante perché – è inutile negarlo – il valore, in era di IA, è sempre più difficile da produrre, anche alla luce del fatto che la religione che si sta creando attorno alla IA ti costringe a misurarti sempre e solo sul suo terreno, che è muscolare, quantitativo ed esponenziale. Ossia quello che noi non siamo, quello che fa leva sul nostro demone, o il nostro “Deinon”, come recita l’Antigone di Sofocle che con coraggio si è misurata, qui lo scandalo, in modo imprevedibile contro il volere della legge patriarcale, terreno in cui abbiamo già perso in partenza, mentre se parliamo di ésprit de finesse, la nostra cultura simbolica e rituale, siamo e saremo avanti alla IA. L’Antropologia Strutturale ha dimostrato che l’essere umano non risolve i problemi esclusivamente per via tecnica ma anche per via culturale, il che non diminuisce affatto il valore della IA, che dominerà il mondo con o senza il nostro consenso, ma anche qui: senza una cultura libera e senza pregiudizi, il design dei sistemi rischia di diventare l’esatto contrario di sé stesso: una prigione.

Il design deve tornare a occuparsi dell’insediamento umano

Esiste poi un altro Design 2) che risponde in modo nuovo a problemi vecchi o vissuti come delle eterne “costanti” e apre scenari interessanti grazie al 5.0, ed è quello che oggi è pervaso dallo spirito della Sostenibilità. Pensiamo a degli oggetti, ma in modo profondamente diverso attraverso i sistemi in cui sono congruenti e cerchiamo la partnership industriale come profondo lato “altro” del fare design. Il che non solo per la comunità del Design, ma forse soprattutto per il sistema del produrre manifatturiero rappresenta un salto quantico. Esperienze come la Pordenone Design Week ne sono la testimonianza diretta: un design blu o green, pacifista ma che comunque sta guadagnando molti punti sullo scacchiere mondiale. Esiste infine ancora un 3) design più popolare, forse a livello rizomico un po’ intimista, ma che scopre un passato laboratoriale e rinascimentale dell’homo faber vecchio stampo, fuori però dal populismo e fuori dalle acrobatiche irregolarità delle citazioni postmoderne e che sceglie di stare vicino a una tradizione artigiana oggi profondamente rinnovata, scevra da una certa enfasi a mio avviso sovradimensionata per i makers, in cui il rapporto uno a uno è più sano e non privo di valore e significato. Su tutte fortunatamente aleggia ormai lo spirito costante sia della Sostenibilità, che di una sperimentazione intrisa di spirito Bauhasiano quindi dotata di visione e non solo di un certo intimismo popolare, più metaprogettuale e dunque meno assertiva e più sperimentale e che sicuramente meriterà una riflessione a parte. La nuova cultura del design nasce dunque esattamente per segnalare il cambiamento ed offrire un contributo di idee e progetti a un sistema industriale che si sta trasformando, visibilmente stressato da una forte onda ristrutturante, ma tutta da capire sotto il profilo antropologico e culturale. Questo processo evolutivo del design non ha necessariamente a che vedere con le specialistiche che si propongono come momento di profondità settoriale, realtà nate per diventare rapidamente obsolete. Oltretutto il gap del design con le sfide attuali non è né tecnico, né specialistico, e meno che mai scientifico, ma pedagogico e filosofico.

La natura di questi design diversi ha condivisa una metodologia chiave e identitaria, un approccio ai problemi e una processualità che supera senza rimpianti la filosofia che “se non c’è prodotto non c’è design”.

Monumentale, Antiquaria e Critica: una nuova responsabilità

Parafrasando Nietzsche (1874), si potrebbe dire che oggi il Design ha una sua dimensione Monumentale, Antiquaria e Critica proprio come il grande filosofo ha inquadrato a suo tempo il concetto di “Storia”. Come per lui esistevano tre tipi di approcci alla storia, oggi esistono grosso modo tre tipologie concettuali di design che a mio avviso–- e lo lancio soprattutto come ipotesi di lavoro – sono basate su altro che non le solite tipologie merceologiche, ma hanno a che fare con l’intensità delle tecnologie e delle sociologie che muovono rispetto alla scala dei problemi che si affrontano. Parlo di Alta, Media e Bassa Densità Tecno-Sociologica.

ISIA e Università, ma gli ISIA per la loro capacità storica di interagire tradizionalmente con l’impresa dovrebbero dare per primi l’esempio e aprire – con un forte sostegno pubblico-privato e delle rappresentanze industriali – delle Agenzie Territoriali per il Progetto Industriale, e creare un arcipelago di strutture progettuali di consulenza, operanti a scala diversa, per realizzare le migliaia di progetti che servono immediatamente: 1. per un territorio enorme tutto da mettere in sicurezza; 2. per migliaia di città tutte da rigenerare liberandole dalla morsa dell’overturismo e 3. per gruppi sociali in forte stato di incertezza e depressione (penso ai giovani). Si tratta di migliaia di progetti pubblici e privati che sarebbe buona prassi fare assieme alle aziende oltre che, ad esempio, alle facoltà umanistiche. Certo, il pericolo dello spoil system esiste e purtroppo sembra proprio incollato al nostro Dna, ma idee del genere creerebbero quella forza di impatto che porterebbe l’Italia ai vertici delle classifiche mondiali e non credo che tutto ciò sia poi così impossibile o utopico, può funzionare ma solo se c’è la consapevolezza di sfatare alcuni luoghi comuni:

1. L’innovazione non è necessariamente un tritacarne sociale.

2. Anche noi saremo dentro il cambiamento, non cambieranno solo gli altri.

3. Trarre ispirazione dalla natura con i suoi cicli.

Poiché nella cultura nessuno dei design qui delineati ha il primato ma tutti creano un nuovo ecosistema culturale attraverso un’azione che diventa una retroazione ecologica nella progettazione e ciascuna di queste branche in sé è sperimentale, e sarà il vero asset umano con cui usciremo dal buco nero lasciato dalla finanza.

In tutto il mondo il processo di revisione dei modelli progettuali del Novecento approda a un percorso inter-transdisciplinare e costruisce un nuovo modo di parlare alle aziende, che a loro volta stanno anch’esse cercando nuovi modelli più aderenti alla complessità sociale, modelli di design e modelli di management. Grazie a questo approccio il mondo del design comincia ad acquisire affidabilità e a essere percepito come partner credibile in sfide difficili. Il dialogo con la scuola diventa più diretto e frequente. Credo sia veramente maturo il tempo di dar vita a nuove esperienze radicali, soprattutto a nuove configurazioni del mondo del professionismo e del progetto; il rapporto uno a uno qui nel mondo di oggi non sembra funzioni più moltissimo. Questo tipo di proposte, questo inusuale cambio di atteggiamento è sicuramente di tipo informale e mette però cultura, impresa e società al centro di nuovi tipi di relazioni e di responsabilità adeguata ai tempi. Il che rende la creazione di valore un cammino inesplorato, magari molto complesso, ma sono proprio questi enormi cambiamenti di sistema e di scenario anche di superamento dell’Io a legittimare esperienze collettive e condivise, come è stato per la Pordenone Design Week seguita poi dalla Roma Design Experience, in cui chi è interessato al futuro collabora apertamente e incredibilmente vince. È assodato che viviamo una realtà molto complessa, ma benché oggi parole come “interdisciplinare” siano piuttosto abusate, dovremo sforzarci di associarle ad un nuovo vocabolario, un nuovo senso di responsabilità ancora più profondo, e la IA ci dovrà dare una mano.

Riferimenti bibliografici

Findeli, A. 2001. Rethinking Design Education for the 21th Century. Design Issues, Winter 2001, vol 17, n°1.

Mongardini, C. 2007. La società del Nuovo Capitalismo, Bulzoni editore. Città di Castello.
Nietzsche,F. 1874. Unzeitgemässe Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben. (trad. it. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1978).

Gallino, L. 2015. Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi. Giulio Einaudi Editore, Torino.

Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Sara-Bianco, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Figura 1. Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Sara Bianco, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Sara-Bianco, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Figura 2. Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Aurora Keber, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Sara-Bianco, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Figura 3. Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Luca Pagotto, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Sara-Bianco, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Figura 4. Macchina didattico-poetica, Corso di Basic Design, Sofia Lucchese, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Dal caos al controllo, Corso di Basic Design, Sara-Bianco, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Figura 5. Dal caos al controllo, Corso di Basic Design, Giulia Grimaz, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Pattern etnografico, Corso di Basic Design, Sara-Bianco, Docenti G.Marinelli E.Rausse
Figura 6. Pattern etnografico, Corso di Basic Design, Jessica Zandomenego, Docenti G.Marinelli E.Rausse