1. Introduzione
Il crescente interesse per la conservazione del patrimonio culturale, accompagnato da un’analisi sempre più approfondita della sua rilevanza e dei suoi valori, ha aperto nuove prospettive per il design, permettendo a quest'ultimo di ridefinire le esperienze culturali nei contesti contemporanei. In questo scenario, il design si distingue per la sua capacità di rivitalizzare e adattare le pratiche culturali, trasformando percezioni, generando e diffondendo conoscenze, creando spazi e nuovi valori attraverso la progettazione e la curatela di esperienze (Chandran & Chon, 2022) per la comunicazione e la fruizione di queste risorse (Trapani, 2013). Il design gioca un ruolo cruciale nella valorizzazione e nella comunicazione del patrimonio culturale, affrontando questioni fondamentali come la sperimentazione nelle pratiche progettuali e nelle teorie che le sorreggono. Tali tematiche sono particolarmente rilevanti quando si trattano risorse ‘sensibili’, come il patrimonio culturale. La complessità del patrimonio, come sottolineato da Harrison (2009), nasce dal fatto che la sua comprensione varia in base ai contesti culturali e storici in cui viene situato. Ulteriore complessità deriva dai modi in cui il patrimonio viene compreso nelle diverse regioni dalle diverse comunità. Questo implica che le pratiche di conservazione e le teorie del design devono essere adattate a queste diverse interpretazioni, rendendo il patrimonio e il design fenomeni dinamici e in continua evoluzione.
Il design è sia un verbo che un sostantivo: rappresenta un insieme di pratiche, così come i risultati di tali pratiche. Il verbo del ‘design’ significa decidere, pianificare; pertanto, l’intero ambiente costruito e naturale, così come i comportamenti che si svolgono al suo interno, sono il risultato di un processo di design (Lees-Maffei, 2021). Nei processi di rigenerazione sociale urbana, il design emerge come strumento catalizzatore delle trasformazioni sociali oltre che pedagogico, con un potenziale particolarmente cruciale nei contesti complessi, come la riqualificazione degli ex manicomi e/o istituti psichiatrici. Attraverso approcci didattici innovativi che combinano design, arte e rigenerazione urbana, è possibile mettere a punto e sviluppare percorsi di apprendimento capaci di attivare il coinvolgimento diretto del territorio e dei suoi cittadini. In questo caso, il design diventa un mezzo potente utile a co-creare significati condivisi e pratiche partecipative, valorizzando le memorie locali. E’ così che è possibile promuovere nuove narrazioni collettive capaci di divulgare in modo più immediato e condiviso i documenti, le storie di vita, le vicende sofferte di un’ampia platea di malati e pazienti psichiatrici e, più in generale, le vicende di medici, infermieri, operatori, insomma di intere comunità sanitarie.
L’apprendimento basato sul design si concretizza, in questi contesti, attraverso metodologie partecipative, tra cui mostre collettive, laboratori creativi, video e prodotti audiovisivi, interventi site-specific tali da favorire il dialogo tra i diversi attori coinvolti. Questo approccio non solo tende a rafforzare il senso di appartenenza e responsabilità verso gli spazi rigenerati, ma contribuisce anche allo sviluppo di competenze fondamentali per immaginare e gestire i processi di trasformazione urbana. Il design interattivo, applicato alla rigenerazione di ex manicomi, rappresenta così un vero e proprio motore di cambiamento, in grado di coniugare la valorizzazione del patrimonio culturale con l’attivazione sociale e il benessere collettivo (Paltrinieri, 2023).
Il presente contributo intende analizzare il ruolo del design per i beni culturali come strumento creativo e trasformativo nei processi di rigenerazione sociale urbana, con un focus particolare sulla riqualificazione di ex manicomi, ospedali psichiatrici e, più in generale, istituzioni totali. Attraverso il caso di studio dell'ex Ospedale neuropsichiatrico di Arezzo, si può esplorare come il design possa facilitare l'apprendimento e la comprensione di luoghi che solo ad una prima vista superficiale risultano marginali, offrendo agli studenti di design e delle discipline artistico progettuali, l'opportunità di interagire con spazi storicamente e socialmente stigmatizzati, proponendo nuovi modi di ripensare la contemporaneità. Le metodologie interattive di design (interactive design) non solo promuovono il coinvolgimento della comunità locale ma contribuiscono anche a decostruire e rafforzare i valori associati a tali luoghi, trasformandoli in spazi di maggiore riflessione, cura della memoria e partecipazione attiva. Un approccio progettuale partecipativo, orientato alla collaborazione e all’innovazione sociale, mette al centro i processi culturali, sia nella loro creazione sia nella loro fruizione. Esso favorisce un dialogo dinamico tra patrimonio storico e contemporaneità, andando oltre il semplice intrattenimento per promuovere nuove modalità di produzione culturale. Questo approccio non solo rafforza il legame con il patrimonio culturale, ma contribuisce anche a costruire le basi per una società più inclusiva e sostenibile, in cui la valorizzazione del patrimonio diventa un catalizzatore per lo sviluppo socio-economico e il progresso collettivo (Trapani, 2013). In particolare, esperienze come le mostre e i progetti di cura collettiva possono svolgere un ruolo cruciale nell'intervento estetico, sociale e rigenerativo sui luoghi, supportando la loro trasformazione e favorendo processi di rigenerazione. Queste iniziative contribuiscono alla costruzione di narrazioni collettive che rafforzano il senso di appartenenza e generano nuovo valore sociale.
2 - Ripensare lo stigma: ex-manicomi, narrazioni femminili e memoria
Se, di fronte ai comportamenti devianti la società ha tradizionalmente risposto mettendo in atto dure sanzioni formali, nei confronti delle donne il condizionamento delle istituzioni totali è stato ancora più esplicito. A seconda delle epoche storiche, nei documenti delle pazienti internate in manicomi e/o istituti psichiatrici, vere e proprie istituzioni totali, si sono registrate con cura (spesso, maniacale) informazioni sui loro comportamenti (compresa la vita sessuale). Inoltre, sono stati annotati comportamenti valutati come poco corretti per la morale e operate sanzioni nel caso in cui le donne non seguissero condotte in linea con le aspettative familiari e sociali del tempo. Se la donna frequentava partner non graditi o mostrava atteggiamenti sessuali disinibiti veniva ripresa, osteggiata e punita con l’ingresso appunto nell’istituzione manicomiale (Bianchi, 2017) ma anche colei che veniva internata in età precoce, da bambina, era spesso stereotipicamente descritta come capricciosa, dispettosa, smorfiose, disubbidiente, ribelle (Setaro, 2017).
Le biografie di molte donne internate negli istituti psichiatrici, ricostruite per lo più ex post a distanza di anni dalla violenza di genere subita, mostrano la prassi tipica degli istituti che gli archivi manicomiali hanno attestato dalla metà dell’Ottocento almeno fino al secondo dopoguerra (Iuso, 2022).
Solo dagli anni 50 in poi del Novecento, è gradualmente emerso uno sguardo critico sulla storia della follia e la sua gestione. Grazie a numerosi studi e ricerche, si è pian piano arrivati a mostrare l’arbitrarietà storica, politica, sociale, medica della definizione della malattia mentale, arrivando a scardinare e riformare, anche attraverso aspri conflitti, l’intero sistema psichiatrico. Fra le tappe di questo percorso tortuoso e complesso, va ricordato che nel 1961 fu pubblicato Asylums di Erving Goffman, dedicato ad un’analisi delle regole del sistema asilare e alle strategie di adattamento degli internati, Histoire de la folie à l’Âge Classique di Michel Foucault, che nella ricostruzione della storia della follia denunciava i manicomi come dispositivi disciplinari emanati dalle politiche sanitarie di stato, Les damnés de la terre di Franz Fanon, che nell’analisi del sistema coloniale e delle lotte di liberazione dedicava un intero capitolo al rapporto esistente fra guerra coloniale e disturbi mentali, oltre a La terra del rimorso di Ernesto De Martino, pietra miliare nella storia dell’etnopsichiatria italiana (Iuso, 2022). Infine, sempre nel 1961, Franco Basaglia si trasferiva a Gorizia per dirigere il manicomio locale, dando vita alle prime iniziative che poi portarono, anche attraverso l’esperienza triestina, al concretizzarsi della sua proposta di legge. Attraverso la legge 180/1978 si realizzerà, infatti, l’utopia della fine dell’istituzione manicomiale e la costruzione di una psichiatria in grado di ridare dignità, autonomia e soggettività alle persone che la sofferenza psichica e la segregazione manicomiale avevano silenziato e annullato (Baioni e Setaro, 2017, Babini, 2017).
Tuttavia, prima di arrivare a questi esiti, capaci di innescare processi urgenti di cambiamento sociale, occorre riconoscere come la psichiatria abbia ricoperto un ruolo sociale preciso e riconosciuto poiché operante in termini di mediazione e controllo sociale per il mantenimento dell’ordine politico e morale laico e di impostazione borghese (Fiorino, 2002, 2014).
A lungo la visione della donna e del corpo femminile, è stata fondata sul controllo e sull’assoggettamento del suo potere legato alla riproduzione: la donna era un’espressione della natura più che della cultura poiché capace di dare vita, un essere virtualmente sdoppiato tra la proprietà soggettiva e personale di sé stessa, e la natura che la domina e attraverso di lei si esprime (Swain 1983). In quanto riproduttrice, la donna era réglée, regolata, ordinata da una legge naturale, diversa da quella dell’individualità. L’ideologia borghese è stata capace di configurare il ruolo della donna in un modello passivo e debole. A lungo le donne sono state dipendenti, anche legalmente, dal padre prima e dal marito poi: hanno accudito la casa, il marito, i figli, limitando la propria possibilità di azione nella sfera privata e familiare. Qualsiasi deroga da questo modello, qualsiasi manifestazione di disagio erano quindi minacce per l’ordine costituito: la donna ‘isterica’ dunque malata, non poteva accudire ma doveva essere accudita, e questo sovvertimento veniva avvertito come una vera e propria insubordinazione. Internate, le donne subivano trattamenti violenti e punitivi: il loro malessere era percepito come la manifestazione di una perversa volontà di sottrarsi al proprio ruolo. Il termine ‘isteria’, come categoria residuale, serviva a coprire disagi incompresi, di varia natura, con la quale venivano etichettate tutte le donne che rifiutavano il ruolo imposto e atteso. Bastava ribellarsi o andare in escandescenza per essere internate e, a volte, anche quando il medico considerava che si potesse essere dimesse, la pressione sociale e familiare era tale da convincere il potere clinico (Iuso, 2022, Baioni e Setaro, 2017).
Oggi le storie di queste donne sono reperibili, il loro vissuto è ricostruibile e può trovare spazio ai fini della riscrittura di una parte fondamentale della storia della follia, delle istituzioni manicomiali e della storia delle donne
3 – Progetti sperimentali tra design e arte nell’area del pionta
La grande quantità di materiale disponibile sulla storia del sito e delle vicende umane, personali, spesso di sofferenza emarginazione, hanno richiesto una attività di sintesi e di risignificazione.
In questo contesto si inseriscono i progetti di ISIA Firenze coordinati da Maurizio Galluzzo con supervisione e materiali di Gozde Yildiz “Siamo tutte Elettra” di Flaminia Aversa, Alessandra Benfatto, Maria Pia Cilenti, Tania Corbascio, Rebecca De Toma, Francesca Di Sabatino, Sofia Massacesi, Marco Midun, Ludovica Mosconi, Asia Neri, Martina Ugolini e “Chimere” di Serena Grazia, Sara Iaccino, Irene Tarateta.
Entrambi i progetti affrontano il tema della narrazione dell’Ex Manicomio di Arezzo partendo da materiali originali e costruendo delle narrazioni e occasioni di approfondimento.
Siamo tutte Elettra è un progetto editoriale realizzato da
studentesse e studenti di ISIA Firenze per promuovere una narrazione
rigenerativa dedicata all’archivio storico dell’ex Ospedale
Neuropsichiatrico di Arezzo.
La storia di Adalgisa Conti, internata all’interno della struttura dal
1913 al 1978, svolge un ruolo cruciale nello sviluppo dei contributi
della presente pubblicazione poiché rappresenta simbolicamente il tema
della stigmatizzazione dei disturbi psicologici femminili e della
subordinazione rispetto agli imperativi della società patriarcale.
Dall’illustrazione al collage digitale, dalla poesia visiva alla poesia
pura, dal video alle audio storie, Siamo tutte Elettra si serve
di linguaggi plurali ed evocativi per proporre una critica generativa.
L’itinerario trova il suo incipit in «intro, siamo dentro» con
le Stanze della memoria di Rebecca de Toma e i frammenti video
del progetto Sulla soglia di Martina Ugolini e Marco
Midun.
La traiettoria prosegue con il capitolo «ex, siamo fuori»,
ambientato negli spazi esterni della Palazzina delle Donne, tra i
collage digitali e le opere di poesia visiva di Maria Pia Cilenti e Asia
Neri, rispettivamente intitolati Dalla radice al
radicale e Insalata di parole.
Il percorso si conclude con «ultra, siamo oltre le mura»
giungendo oltre la città di pietra, spingendosi con irriverenza oltre la
norma della conformità: il podcast Medusae di Francesca di
Sabatino, Tania Corbascio, Sofia Massacesi, Flaminia Aversa raccoglie
gli interventi di note attiviste italiane; Lessico
oltraggioso introduce i componimenti di giovani autrici
contemporanee, accompagnati dalle sperimentazioni verbo-visive
di Ludovica Mosconi.
Siamo tutte Elettra approda dunque al di là dei tetti rossi, in
uno spazio-tempo che si interroga sul dramma della detenzione e sulle
sue invisibili e contemporanee declinazioni. Per servire tale scopo,
ogni contenuto del progetto editoriale si riappropria della figura
mitologica di Elettra per affermare come l’autodeterminazione femminile
non sia solo un diritto legittimo ma un debito oneroso da sanare con
urgenza.
A seguito di una serie di sopralluoghi in loco e di uno studio del patrimonio materiale e immateriale contenuto nell’Archivio Storico dell’ex Ospedale Neuropsichiatrico di Arezzo, il gruppo studentesco ha avviato un processo di costruzione di uno storytelling inedito per la valorizzazione della memoria dell’esperienza manicomiale.
L’ideazione di un progetto espositivo è stata successivamente accompagnata dalla creazione di un prodotto editoriale dal titolo omonimo: Siamo tutte Elettra è il risultato di un percorso multidisciplinare che ha visto studenti e studentesse confrontarsi con gli ambiti del design speculativo, della curatela, della ricerca sociologica, dell’editoria cartacea.
Si riporta di seguito un estratto della pubblicazione:
«Dall’illustrazione al collage digitale, dalla poesia visiva alla poesia pura, dal video alle audio storie, Siamo tutte Elettra si serve di linguaggi plurali ed evocativi per proporre un itinerario che, dagli spazi interni ed esterni della Palazzina delle Donne, giunge oltre le mura di pietra. Siamo tutte Elettra approda al di là dei tetti rossi; si interroga sul dramma della detenzione e delle sue invisibili declinazioni contemporanee; si riappropria della figura mitologica di Elettra per affermare come l’autodeterminazione femminile non sia solo un diritto legittimo ma un debito oneroso da sanare con urgenza.»
Chimere è un progetto di rigenerazione storica, territoriale
ed emotiva legato all’ex manicomio di Arezzo.
Prevede lo sviluppo di un gioco di carte che, attraverso una serie di
domande, pone le basi per una conversazione emotivamente profonda.
L’obiettivo di quest’ultimo è stimolare la connessione, facendo parlare
di sé, degli altri della reciproca salute mentale.
Il mazzo di carte è legato a una serie di panchine pensate per
l’ambiente del parco del Pionta.
Chimere vuole dare ai suoi partecipanti l’occasione di dialogo e di
condivisione che è stata tolta ai pazienti dell’ex manicomio
aretino.
A tal proposito, il progetto ha sviluppato anche una pubblicazione
contenente un breve excursus storico sul trattamento delle malattie
mentali.
Servendosi di argomenti-filtro quali la nascita dei manicomi e Franco
Basaglia, il libro scende sempre più nello specifico, arrivando a
trattare la storia del Pionta e dell’ex Ospedale Neuropsichiatrico di
Arezzo.
Il tutto è raccontato non soltanto dai testi, ma da foto di archivio,
opere d’arte, citazioni e poesie.
L’ultima parte del libro riguarda il progetto di Chimere, di come è nato
dalle ceneri degli eventi narrati nei capitoli precedenti e della sua
voglia di futuri più luminosi per tutti.
4 - Conclusioni
Il progetto di riqualificazione, attivazione artistico culturale e
ripensamento spaziale dell’area del Pionta ad Arezzo è un’occasione
unica che unisce una memoria storica rispetto ad un momento di chiusura
degli spazi social (l’ex manicomio) con l’idea di una ricostruzione del
tessuto urbano e sociale.
La presenza di istituzioni pubbliche tra cui l'università, hanno portato
lo spazio ad una fruizione continua, e viva. Da luogo di snodo tra la
stazione ferroviaria ed una parte del centro ha assunto il significato
di luogo di passaggio non solo fisico ma anche generazionale e di
ripresa del territorio.
Gli eventi che sono stati organizzati, e che continuano ad essere
alimentati da associazioni, università, istituzioni e cittadini fornisce
un momento di conforto rispetto alle sollecitazioni che da più parti
chiedono una riqualificazione.
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